Dazi, come sarà la nuova battaglia
La manifattura cinese avanza, dall’auto alle tecnologie verdi. E il vecchio mondo corre ai ripari alzando barriere commerciali contro le distorsioni del dirigismo di Pechino. L’ultimo segnale è il primato conquistato dai produttori cinesi nelle vendite globali di auto, a spese delle case statunitensi. E mentre la Cina studia contromisure sui prodotti agroalimentari, la Germania tenta la via del negoziato per evitare l’effetto boomerang dei dazi europei sull’auto.
Da qualunque prospettiva la vogliamo guardare, possiamo riassumere questa postura globale con un concetto netto: autolesionismo economico. Numerosi sono gli studi scientifici già riscontrabili come effetto delle misure protezionistiche americane degli ultimi anni.
Mettiamo in fila le cose. Un documento ufficiale del 2019 redatto dal Fondo Monetario Internazionale esplicita in modo inconfutabile, grazie al ricorso all’analisi delle basi dati di 151 Paesi nel periodo 1963-2014, che l’adozione di politiche di aumento tariffario determinano un impatto negativo sui volumi di produzione e sulla produttività.
Effetti che sono amplificati quando gli aumenti tariffari vengono utilizzati durante i periodi di espansione per le economie avanzate e che portano anche a una maggiore disoccupazione e a una maggiore disuguaglianza. I dazi hanno peraltro solo piccoli effetti sulla bilancia commerciale, in parte, perché inducono un apprezzamento compensativo del tasso di cambio. Tradotto in pratica: noi europei (economie avanzate) ne usciamo fortemente penalizzati senza portarci a casa una vera riduzione del deficit commerciale.
Ma in realtà è ancora peggio: essendo la Cina l’hub produttivo di molte imprese occidentali come Tesla, Volkswagen, Audi, che producono lì le auto elettriche, otterremo lo straordinario risultato di imporre dazi alle nostre imprese che sono andate a cercare in quel di Pechino il miglior know how. Quindi, le misure protezionistiche che dovrebbero mettere in sicurezza i produttori europei, di fatto, li punirebbero così come penalizzerebbero in misura molto significativa i consumatori europei che si troverebbero nella condizione di acquistare prodotti più costosi.
Occorre d’altro canto osservare che i dazi sono facilmente aggirabili ricorrendo a Paesi che svolgono il ruolo di connettore tra aree geo-economiche ostili: a questo proposito, abbiamo già osservato l’enorme crescita dell’export del Messico e di una serie di Paesi asiatici verso gli Usa. È il tipico caso di “lavaggio commerciale”: a dire che molte imprese cinesi hanno orientato parte della loro catena del valore (tipicamente l’assemblaggio) in Paesi amici o non ostili agli Usa, bypassando così i dazi. In tutta questa assurda dinamica a chi fa la voce più grossa, noi italiani siamo ovviamente tra coloro che rischiano di uscire con le ossa più malconce.
Come noto, la nostra economia si regge sulle esportazioni: oltre 600 miliardi nel 2023. Pensare di vedersi precluso il ricco mercato cinese, e quelli ad esso connessi, ci mette nella condizione di dipendere da Paesi (occidentali) che non garantiscono prospettive esattamente allettanti. Si tratta infatti di Paesi contraddistinti da un andamento demografico penalizzante. Puntare sugli Usa è peraltro una speranza mal riposta: che si tratti di Trump o Biden il teorema di America First è comunque valido. Basti pensare ai 560 miliardi di dollari di sussidi dell’Inflation Reduction Act. Insomma, da qualunque lato si voglia guardare il fenomeno, il risultato non cambia. Questo è il classico esempio di una reazione a catena di madornali errori politici. Che è, a sua volta, figlia di visioni nazionaliste che sono la cifra ideologica di molti schieramenti politici. I risultati sono già evidenti. Nel 2023 il commercio internazionale ha perso circa 1.500 miliardi di dollari. E questo è il presente.
Stiamo combattendo la Guerra Mondiale dei Dazi. E la stiamo combattendo sapendo che non ci saranno vincitori. E, nel caso, non saremo noi.
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