L’ignoranza come status

Quando un terzo degli italiani non sa chi sia Pirandello o chi abbia pitturato l’ultima cena, quando la metà o poco meno degli studenti al termine delle superiori non raggiunge i traguardi di apprendimento in italiano o in matematica, non c’è da meravigliarsi troppo degli stereotipi e pregiudizi, per cui il 20% crede che gli ebrei dominino il mondo e il 15% che l’omosessualità sia una malattia genetica.

Attenzione: da noi l’ignoranza non è solo uno stato di fatto, di cui si possa dare la colpa ai docenti o ai ministri dell’istruzione e voltare pagina. 



L’ignoranza è ormai anche uno «status», che si esibisce in tv, inorgoglisce i tanti leoni da tastiera nella giungla del web, alimenta gli odiatori nel dibattito pubblico e i demagoghi in quello politico; e che viene persino esaltato da una certa polemica contro gli intellettuali e contro le élite, da sempre parte integrante della storia della nazione e ora arrembante arma di successo.

Ma se l’ignoranza prevale, ed è perfino preferibile, non c’è da meravigliarsi neanche della caduta del reddito disponibile procapite, il precipizio degli ultimi vent’anni, una contrazione in termini reali del 7%: un Paese penultimo in Europa per numero di laureati (dopo la Romania) è naturalmente portato verso lavori a minor contenuto di valore aggiunto, dunque più poveri.

La grande stagnazione del Paese, o la «continuità nella medietà» come la chiama il Censis, la trappola del «galleggiamento» in contrasto con lo slancio creativo del dopoguerra e gli «animal spirits» degli anni 80, è il dato precipuo della «sindrome italiana». Quando un Paese perde ricchezza perde fiducia; se perde fiducia nell’ascensore sociale (uno stupefacente 85% di italiani non ci crede più) fa meno figli, se fa meno figli ha meno propensione al rischio imprenditoriale e più attrazione per la rendita. Ha più paure (del cambiamento climatico, delle guerre) e meno speranze. Rimette in discussione tutti i punti fermi di un passato che sembra non funzionare più e perciò se la prende con l’Occidente (il 66% lo incolpa dei conflitti in corso), o dispera dell’Unione europea (destinata a sfasciarsi per il 71,4% degli italiani), o diserta la democrazia (alle ultime consultazioni europee abbiamo raggiunto il record di astensionismo del 51,7%).

La politica è lo specchio di questa società. Perché altrimenti, se non per disorientamento e paura del futuro, negli ultimi trent’anni una quota consistente dell’elettorato sbanda a ogni elezione come il carico nella stiva di una nave in tempesta. Siamo arrivati al 60% di astensionismo alle elezioni !!! Ci rendiamo conto ?

Non è questione di destra o sinistra , progressisti o conservatori .Servirebbe ben altro. 

Servirebbe, per esempio, una riduzione di portata storica del nostro debito pubblico, che immobilizza risorse che dovrebbero essere destinate alla sanità, dove spendiamo di tasca nostra 44 miliardi di euro all’anno per sopperire a liste di attesa troppo lunghe, o alla scuola, dove investiamo meno soldi nell’istruzione di quanti ne paghiamo per gli interessi sul debito. 

Intendiamoci, nessuna profezia di sventura. Il Censis fa il suo mestiere, e ci racconta l’Italia come farebbe un pittore impressionista: per come la vede. «Società del rancore», «sovranismo psichico», «furore di vivere», «ruota quadrata», «società irrazionale», «Italia malinconica» e poi dei «sonnambuli»: sono solo alcune delle metafore dei rapporti di questi ultimi anni che si sono succedute e talvolta accavallate. 

Eppure siamo ancora qua, secondo Paese esportatore d’Europa e quarto del mondo, da poco sopra al Giappone; a smentire ogni presagio funesto e a confermare il paradosso del calabrone, che così pesante e con ali così piccole non dovrebbe volare, eppure vola.

Però sarebbe un errore sottovalutare ciò che sappiamo benissimo, ma che il Censis ha il merito di ricordarci ogni anno. 

Abbiamo bisogno di uno scatto di volontà e coesione nazionale e di una leadership forte che lo promuova.


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Grazie @ FOOD ITA per la bella intervista